LA PANDEMIA DEL XXI SECOLO
Il 31 dicembre 2019, nella città di Wuhan, le autorità sanitarie cinesi hanno reso noto un focolaio di casi di polmonite che, il 9 gennaio 2020, ha identificato nel nuovo coronavirus la causa eziologica e che, l’11 febbraio, ha preso il nome di COVID-19 (OMS).
Esattamente un mese dopo è stata dichiarata la pandemia, che ha messo a dura prova le società e le economie degli Stati, in virtù delle misure prese per rallentare e controllare la diffusione del virus.
Va evidenziato il bisogno di non sottovalutare i costi in termini di salute psicologica connessi a questo periodo storico.
Infatti, la letteratura scientifica ha già fornito numerosi dati che riguardano tanto gli operatori sanitari, quanto le persone che hanno stravolto le loro abitudini lavorative e sociali.
LE RICERCHE SCIENTIFICHE
Una ricerca condotta in 34 ospedali cinesi, tra il 29 gennaio ed il 3 febbraio 2020, con un campione di 1257 operatori sanitari, ha riportato i seguenti dati: il 50,4% dei partecipanti dichiarava sintomi di depressione; il 44,6% sintomi ansiosi; il 34% disturbi del sonno (insonnia); e, infine, il 71,5% dei partecipanti lamentava sintomi di distress.
Inoltre, la ricerca ha sottolineato come gli infermieri, le donne e gli operatori sanitari che hanno lavorato in prima linea a Wuhan, hanno riportato dei sintomi di salute mentale molto più forti e gravi rispetto ad altri lavoratorUn’altra ricerca, approvata dal comitato di revisione istituzionale locale dell’Università dell’Aquila, e svolta tra il 27 ed il 31 marzo 2020, si è avvalsa di un questionario online inviato tramite social networks. Il campione, composto da 1379 operatori sanitari che hanno lavorato in prima e seconda linea, ha riportato i seguenti dati: il 49,38% accusava sintomi da stress post-traumatico (PTSS); il 24,73% sintomi depressivi; il 19,80% sintomi ansiosi; l’8,27% lamentava insonnia; infine, il 21,90% dei partecipanti dichiarava alti livelli di stress percepito.
Un ulteriore contributo è stato dato da Open Evidence, dell’Universitat Oberta di Catalunya (in collaborazione con Bdi Schlesinger and Group, l’Università degli studi di Milano, l’Università degli studi di Trento, la Universidad Nacional de Colombia e la Glasgow University). Questa ricerca ha evidenziato come, a causa dei fattori di vulnerabilità socio-economica, il rischio di un peggioramento della salute mentale della popolazione è pari al 41% in Italia, al 46% in Spagna e al 42% nel Regno Unito.
Infine, l’ultima ricerca che vale la pena citare è quella emersa dalla collaborazione tra l’Università di Tor Vergata e quella dell’Aquila, che ha coinvolto circa diciottomila persone. Avvalendosi di un questionario online, diffuso tra il 27 marzo ed il 6 aprile, sono stati indagati elementi come lo status lavorativo, la condizione di salute e la prossimità con individui ricoverati o deceduti a causa del COVID-19.
I risultati hanno mostrato come: il 37% dei partecipanti ha dichiarato disturbi post-traumatici da stress; il 22,9% disturbi dell’adattamento; il 20,8% lamentano sintomi di ansia e stress elevato; il 17,3% manifesta depressione; infine, il 7,3% dichiara di soffrire di insonnia.
LE STRUTTURE CEREBRALI CHE INTERVENGONO NELLA RISPOSTA ALLO STRESS
Tenendo conto dei dati riportati, appare evidente come i sintomi sopracitati siano il comune denominatore della risposta al COVID-19 e, per questo motivo, ci si è soffermati sulla domanda: quali sono i correlati neurobiologici attivati per far fronte alle situazioni di stress?
Innanzi tutto, va precisato che lo stress è definito come un’alterazione del normale stato di omeostasi, ovvero di quella serie di processi mentali messi in atto dall’organismo per mantenere il proprio equilibrio.
Da ciò sono scaturiti numerosi studi che hanno scoperto l’esistenza di alcuni sistemi neurobiologici che intervengono nella risposta allo stress, tra i quali l’asse che connette il sistema limbico con l’ipotalamo, l’ipofisi e il surrene (LHPA).
La prima struttura, l’ipotalamo, ha una funzione neuroendocrina sulla termoregolazione, sul sonno e sulla risposta autonoma, e ogni lato è suddiviso nelle zone laterale, mediale e periventricolare: qui si trovano i neuroni neurosecretori che inviano i propri assoni fino al peduncolo ipofisiario, che connette l’ipotalamo all’ipofisi.
Quest’ultima presenta due lobi, uno posteriore ed uno anteriore, dove sono contenuti i neuroni neurosecretori parvocellulari, di origine ipotalamica, che secernono i cosiddetti ormoni ipofisotropici.
Infine, le surreni, situate proprio al di sopra dei reni, sono costituite da una zona midollare (o centrale) ed una corticale (o periferica): in quest’ultima viene prodotto il cortisolo, l’ormone steroideo che ha il compito di mobilitare le riserve energetiche e controllare il sistema immunitario.
A questo punto, cosa accade?
I neuroni neurosecretori parvocellulari stabiliscono se uno stimolo sia o meno percepito come stressante e, in caso di esito positivo, rilasciano un peptide chiamato ormone rilasciante della corticotropina (CRH) che si dirige verso l’ipofisi anteriore, dove viene stimolato il rilascio di corticotropina (o ormone adrenocorticotropico – ACTH).
L’ACTH entra nella circolazione generale fino a raggiungere la zona periferica del surrene e attiva il rilascio del cortisolo. Quest’ultimo, quando raggiunge l’ipotalamo, interagisce con specifici recettori che portano all’inibizione del rilascio di CRH e assicurano che i livelli di cortisolo non siano troppo elevati.
Inoltre, va precisato che anche l’ippocampo è caratterizzato da specifici recettori per i glucocorticoidi, prodotti dalla corticotropina, che concorrono ad aumentare il tasso di glucosio nel sangue: quando viene percepito il suo aumento, ipotalamo e ipofisi inibiscono l’ulteriore secrezione di cortisolo.
Per comprendere meglio l’attivazione dell’asse LHPA, va fatta un’ulteriore precisazione.
L’informazione sensoriale raggiunge dapprima l’amigdala basolaterale, che è connessa al talamo, ovvero alla “stazione” di quasi tutte le informazioni provenienti dal sistema nervoso centrale (SNC).
Inoltre, l’amigdala corrisponde a quella zona cerebrale che si occupa di dare un significato emotivo alle informazioni sensoriali e, successivamente, di inviarle all’ippocampo, dove vengono processate e trasmesse al sistema limbico. Una volta analizzata l’informazione sensoriale, viene inviata al nucleo centrale, che dà origine alla risposta da stress attivando l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene.
IL BLOCCO NEURALE
La capacità di mantenere attiva la memoria di lavoro e l’omeostasi può venire meno quando i segnali emotivi come la rabbia, l’ansia, o la paura, generati nell’amigdala, possono andare incontro ad un “blocco neurale”.
A tal proposito, infatti, è stato riscontrato come elevati livelli di corticotropina e un’esposizione continua a cortisolo, come avviene nei periodi di stress cronico, possono causare dei danni all’attività ippocampale.
Nello specifico, viene a crearsi una sorta di circolo vizioso nel quale si ha una risposta allo stress più pronunciata e, allo stesso tempo, un maggior rilascio di cortisolo che aumenta l’entità del danno.
Infatti, studi di neuroimaging hanno evidenziato una riduzione del volume dell’ippocampo in soggetti con disturbo post-traumatico da stress o disturbi d’ansia.
Quando lo stress interferisce con la categorizzazione e l’archiviazione dei ricordi, viene registrata l’esperienza emotiva, ma non viene né elaborata simbolicamente, né collocata nello spazio e nel tempo.
In tal senso, nel momento in cui l’amigdala viene attivata da fonti ansiose o stressanti, viene innescata una maggiore secrezione di adrenalina e noradrenalina da cui si genera uno stato di allerta.
Pertanto, vengono inviati messaggi urgenti per produrre CRH, altri circuiti segnalano al locus coeruleus di secernere ulteriore noradrenalina e l’ippocampo riceve l’ordine di rilasciare dopamina per aumentare l’attenzione.
Se lo stress continua a persistere, il locus coeruleus e l’ipotalamo diventano iperattivi e allertano il corpo verso un’emergenza costante.
Inoltre, dal momento che c’è una produzione elevata di noradrenalina, viene meno anche il funzionamento dei movimenti oculari REM, disturbando così il sonno.
Per tale ragione, l’informazione che avrebbe dovuto essere processata viene mal elaborata e si ottengono risposte emotive e cognitive distorte associate allo sviluppo di sintomi depressivi e di PTSD.
Nei soggetti traumatizzati si osserva un aumento dell’attività dell’amigdala e, viceversa, una ipoattività ed una riduzione del volume dell’ippocampo, deputato alla deposizione delle memorie semantiche ed autobiografiche, nonché della memoria di lavoro.
Qualora poi la sintomatologia dovesse evolvere in un danno post-traumatico, gli studi di neuroimaging hanno evidenziato come gli effetti possano estendersi ad altre aree, quali il corpo calloso e la corteccia prefrontale, assistendo ad un deficit dell’integrazione delle funzioni cognitive superiori, che può sfociare in fenomeni dissociativi.
LA RESILIENZA
Ma qual è la componente che incide sulla vulnerabilità alle situazioni di stress?
Sicuramente la resilienza.
Si tratta di un concetto che, negli ultimi anni, è stato ampiamente studiato, il cui significato trae origine dal termine latino “resilio”, che vuol dire “tornare indietro”.
La resilienza è intesa come quella capacità di riorganizzare in termini positivi la propria esperienza, ed ha uno stretto legame con quelle caratteristiche individuali, tra le quali le abilità cognitive, la regolazione delle emozioni e il problem solving.
Ciò che va sottolineato è che la resilienza, in sé, non ha la capacità di rimuovere le esperienze negative vissute, quanto piuttosto di utilizzarle come base per poter ripartire. Diversi studi hanno evidenziato come la capacità di aumentare la risposta emozionale a stimoli negativi è un fattore protettivo che influisce nella risposta alle situazioni stressanti e/o traumatiche.
Tuttavia, nonostante la capacità di resilienza, categorie di persone come gli anziani, o gli operatori sanitari e gli individui con patologie psichiche o fisiche pregresse hanno maggiori probabilità di essere più vulnerabili di fronte al disagio emotivo connesso al COVID-19.
Allo stesso tempo, ad aver influito sulle risposte allo stress, c’è stato il confinamento forzato, l’isolamento e la quarantena che hanno inciso sulla vita lavorativa e sociale, costringendo, di fatto, gli individui a fare i conti con una realtà inimmaginabile. Inoltre, non va dimenticato che in moltissimi si sono trovati a vivere un trauma emotivo da lutto, dovuto alla perdita di familiari e/o amici.
È così che, inevitabilmente, le risposte individuali hanno prodotto quei sintomi riportati nelle ricerche, quali: ansia, depressione, insonnia, paura, rabbia e così via.
L’INTERVENTO PSICOLOGICO
Sebbene in letteratura esistano correnti di pensiero per le quali le condizioni mediche come l’infezione virale non siano sufficienti per articolare una diagnosi di PTSD, è opportuno considerare che, come sostiene Bessel van der Kolk (1987), l’esperienza traumatica è qualsiasi evento emotivamente forte, difficile da elaborare e controllare, nonché percepito come una minaccia per la propria sopravvivenza.
Proprio in ragione di queste considerazioni e di quelle che possono essere le conseguenze dannose a livello neurobiologico, è importante proseguire a fronteggiare l’emergenza con un continuo intervento psicologico, che ha già avuto inizio con la creazione di una Task Force da parte del Consiglio Nazionale dell’Ordine Psicologi (CNOP).
Dott.ssa Alessia Filesi
Sitografia:
https://www.ilsole24ore.com/art/lockdown-e-disagio-mentale-41percento-italiani-rischio-ADyZHVO?fbclid=IwAR0Vf-_xQbnDjbhT3ftRJw6datvzFzhtXhfDOSXN3LDjadmU80JyirMcL8E&refresh_ce=1
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