IO SONO SIMONETTA CESARONI
Sono Simonetta Cesaroni ed oggi avrei compiuto cinquantuno anni ma, nel lontano 7 agosto del 1990, qualcuno ha spezzato la mia giovane vita.
Quel giorno di trenta anni fa era un torrido pomeriggio estivo e poca gente era in giro ma ero comunque allegra e serena in quanto era l’ultimo giorno di lavoro prima delle vacanze estive, non potevo certo pensare che sarebbe stato anche il mio ultimo giorno di vita.
Accompagnata da mia sorella andai alla fermata metro Subaugusta, per dirigermi a lavoro in Via Carlo Poma n. 2, dove mi recavo due giorni a settimana.
Svolgevo il lavoro di segretaria contabile per la società Reli sas, uno studio contabile in zona Casilina, che aveva come cliente l’A.I.A.G. e proprio per questo mi recavo in via Poma il martedì e il giovedì.
Arrivai in ufficio alle ore 16 circa e cominciai subito a lavorare, fra l’altro quel giorno ero da sola, visto che il collega che doveva affiancarmi, era in ferie.
Dopo poco, saranno state le ore 17.20, ho avuto un problema, non ricordavo un codice, per una fattura che dovevo registrare, e telefonai a Luigina Berettini, un’impiegata dell’A.I.A.G., per avere delucidazioni.
A quel punto continuai a lavorare tranquillamente, pensando già all’indomani, alle giornate rilassate, al mare e alle serate che avrei trascorso con gli amici, e poco importava se non sarei stata con Raniero.
Improvvisamente, sentii un rumore alla porta ed esclamai: “Chi è? Ah sei tu…che fai qui?” Imbarazzata dalla sua presenza dissi: “Oggi è proprio caldo, vero? Per fortuna da domani sto in vacanza…Ma che succede perché mi guardi così? Sinceramente mi sento a disagio…..che fai? No….fermati…”
LA CRONACA
Il fatto di cronaca è, a noi tutti, noto.
Simonetta è stata brutalmente uccisa con 29 coltellate inferte al volto, al seno, al ventre e alla zona pubica.
Sul capezzolo sinistro era presente un vistoso morso, tuttavia, non riportava segni di violenza sessuale.
Le indagini, da subito, si concentrarono sulle persone presenti quel giorno in Via Poma, in quanto era improbabile che un estraneo si fosse introdotto in quell’appartamento del terzo piano senza essere visto, considerata la presenza dei portieri nell’ atrio, nonché, il fatto che la porta dell’appartamento non era stata forzata ma addirittura chiusa con quattro mandate!
Il corpo di Simonetta venne ritrovato, intorno alle 23.00, da Salvatore Volpone, il suo datore di lavoro, che era stato allertato dalla sorella Paola che, preoccupata di non averla sentita telefonicamente, si metteva in contatto con lo stesso ed insieme raggiungevano l’appartamento.
Arrivati all’appartamento, Volpone apriva con le chiavi, consegnategli dalla moglie del portiere, Pietro Vanacore, e, dopo aver percorso il corridoio, in una delle stanze, sul pavimento, in una pozza di sangue, giaceva il corpo di Simonetta.
LA SCENA DEL DELITTO
Era seminuda, con la testa rivolta verso la porta, il corpetto sollevato sul seno, senza biancheria ma con i calzini ai piedi.
La stanza appariva in ordine e ripulita, le scarpe di Simonetta messe in maniera composta vicino al corpo.
Alcuni vestiti erano stati portati via, così come un anello, gli orecchini ed un bracciale, la borsetta invece, appariva frugata e scomposta e ne erano state prelevate le chiavi, usate per richiudere l’appartamento, come a lasciar credere che fosse stata la stessa vittima ad aprire la porta al proprio assassino.
La dinamica dell’omicidio appare chiara fin dall’inizio, difatti dall’autopsia emerge che Simonetta ha lottato per difendersi, poi è stata stordita con uno schiaffo o un pugno.
Una volta caduta per terra è stata sovrastata dall’assassino, probabilmente, inginocchiandosi su di lei nel tentativo di violentarla, come testimoniano i lividi sulle anche.
Per poi colpirla con rabbia cieca e trapassarla con 29 colpi.
L’ arma utilizzata non è stata trovata ma sicuramente si tratta di un tagliacarte, il che ci suggerisce che non si è trattato di un delitto premeditato e ci porta anche a pensare che l’assassino ha agito in preda ad una forte ira, considerato che si tratta di una arma impropria che non provoca tagli profondi per cui ha spinto con molta forza.
L’ assassino poi ha lasciato l’appartamento assicurandosi di ripulire la scena del crimine, ma dimenticando delle tracce di sangue sulla maniglia della porta.
PIETRINO VANACORE
Dall’analisi del DNA sono emerse due tracce diverse, ma a quei tempi l’esame non era preciso come adesso, e servì a scagionare 29 indagati, tra questi anche Pietro Vanacore.
Possiamo, però, con certezza affermare che chiunque sia stato l’assassino non poteva non conoscere l’appartamento, poiché si era mosso con troppa familiarità!
Le indagini si concentrarono da subito su uno dei portieri, Pietro Vanacore, a causa di un buco nel suo alibi, difatti nella finestra temporale fra le 17.30 e le 18.30, l’ora in cui è avvenuto il delitto, non era nel piazzale insieme agli altri portieri dello stabile ed inoltre aveva le chiavi di tutti gli appartamenti.
Per di più, c’era una discordanza di testimonianze sull’ora in cui doveva recarsi presso la casa dell’anziano architetto, Cesare Valle, il cui appartamento si trovava sopra l’ufficio incriminato, che ha portato gli investigatori a fermare Vanacore che passerà 26 giorni in carcere.
Tuttavia, nonostante i sospetti che c’erano su di lui, viene scarcerato e la sua posizione archiviata sia quale responsabile del delitto sia come testimone muto.
Ciò perché venne sostenuto che chiunque abbia pulito il sangue presente sul luogo dell’omicidio inevitabilmente si sarebbe sporcato i vestiti, considerato che Vanacore ha indossato per tre giorni di fila gli stessi abiti, e su di essi non sono presenti tracce di sangue di Simonetta, non può essere stato lui.
Le circostanze e le menzogne dette dal Vanacore, circa il fatto di avere visto uscire, quel pomeriggio alle 18 circa, un condomino in lacrime e con un fagotto sotto il braccio, quel tizio di fatto aveva un alibi di ferro era in ferie con amici in Turchia, portarono a farne l’indiziato numero uno dalla polizia.
L’ESAME DEL DNA
Ma gli accertamenti sul DNA del sangue trovato sulla maniglia della stanza, in cui fu ritrovato il corpo di Simonetta, contribuirono a scagionarlo dall’omicidio.
Venne nuovamente sospettato, quando furono mosse le accuse nei confronti di Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle, ritenuto in questo caso complice.
Contro il Valle pesava una testimonianza di un austriaco, ritenuta poco attendibile, ma una perizia effettuata sul suo corpo escludeva la presenza di cicatrici procurate durante una eventuale colluttazione con Simonetta, pertanto, venne scagionato.
Infine, il Vanacore, molti anni più tardi, si ritrova nuovamente ad essere chiamato in giudizio per deporre all’udienza in cui era imputato per l’omicidio di Simonetta, Raniero Busco, suo fidanzato ai tempi del delitto. Vanacore, il giorno prima della testimonianza, si suicidò gettandosi in mare, lasciando un cartello con una scritta: “20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”.
RANIERI BUSCO
Si arrivò a scrivere fra gli indagati Raniero Busco, molti anni dopo, quando con le nuove tecniche scientifiche venne trovata una traccia di DNA sul corpetto indossato da Simonetta che ne evidenziò la presenza della sua saliva, inoltre aveva un alibi debole e aveva un rapporto tormentato con la vittima.
Molto discussa dai periti è stata poi la compatibilità dei denti di Busco con il morso sul capezzolo di Simonetta.
Condannato in primo grado a 24 anni di reclusione, nel processo d’Appello la decisione fu ribaltata in quanto le prove furono ritenute non certe e, pertanto, venne assolto per non aver commesso il fatto.
Negli anni si seguirono varie piste piuttosto suggestive, giro di prostituzione, di cui faceva parte Simonetta, servizi segreti, e persino la banda della Magliana!
La verità è che fin dall’inizio le persone che sapevano non hanno collaborato e mentito in maniera tale da portare a delle false piste.
Un altro dato ineluttabile è che si è trattato di un omicidio a sfondo sessuale commesso da una persona che Simonetta conosceva.
Un uomo che non riuscendo a portare a termine la violenza progettata, forse perché interrotto da qualcuno o qualcosa, per paura delle conseguenze abbia sfogato la sua ira omicida sulla vittima.
CONCLUSIONE
A distanza di 30 anni il delitto di Simonetta è rivestito da un alone di mistero, da una coltre impenetrabile di omertà che ci permettono di affermare che i nostri metodi investigativi e il sistema giudiziario hanno fallito ma, riflessione ancor più inquietante , che potrebbe non esserci mai stata la volontà di far luce su questo terribile crimine
Eppure, se potesse parlare Simonetta ci direbbe: “Perché nessuno vuol dare pace alla mia memoria? Quale è stata la mia colpa? Forse la mia freschezza, la mia gioventù e allegria meritavano di essere punite? Volevo solo condurre un’esistenza serena, essere circondata da belle persone e da tanto amore…. ma lui ha spezzato in maniera brutale la mia vita”.
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